TIBERIO
"Eccellente
condottiero ed ottimo amministratore, Tiberio cerca di consolidare l'impero
piuttosto che ampliarlo. E' senza dubbio un grande sovrano la cui cattiva fama,
specie quella relativa alle dissolutezze a cui si sarebbe abbandonato negli
ultimi anni della sua vita, dipende in gran parte dai cronisti dell'epoca"
Tiberio ed Augusto
Tiberio fu l’erede di Augusto. L'erede non voluto, l'erede non amato, l'erede imposto crudelmente dal destino.
Tutta la sua vita fu segnata, fin dall’infanzia, dalla presenza di Augusto, prima patrigno e poi suocero. Ed anche dopo la morte di questi, la sua ombra si proietterà a lungo sull’attività di Tiberio condizionandone decisioni ed azioni.
La chiave per dare una valutazione del suo operato, sta tutta qui: nel riuscire a mettere a fuoco, soprattutto sul piano psicologico, il rapporto fra i due.
Aveva 56 anni quando Augusto morì, ma in realtà non era mai stato giovane. L’adolescenza, la giovinezza e la maturità erano state vissute sotto l’ombra pesante e non sempre favorevole del patrigno. Ne fu, con Agrippa, il miglior Generale, operando sempre vittoriosamente su tutti i fronti. Quasi tutte le nuove conquiste di Augusto portano in realtà il suo nome.
Fu leale, disciplinato ed obbediente. Ebbe un solo momento di orgoglio e di sussulto, quando si ritirò in esilio volontario a Rodi per sette anni. Richiamato a Roma per la forza tragica degli eventi, fu ancora eccezionale ed unico collaboratore. La sua devozione non gli fece, però, guadagnare l’affetto del suocero-patrigno. Augusto fu perfido con lui anche dopo la morte. Nel testamento, pur designandolo erede, confermava di averlo fatto solo perché il destino gli aveva portato via tutti gli altri eredi individuati.
Nonostante tutto, fu campione di coerenza continuando la politica di Augusto.
Sarà Imperatore per 23 anni. Ad un primo splendido periodo, seguiranno mediocri e torbidi anni di governo dal “buen retiro” di Capri. Alla determinata e prudente politica estera ed alla saggia e corretta amministrazione delle provincie si accompagnerà la tirannide nei riguardi della città di Roma.
Morirà a 78 anni. Almeno in questo, aveva superato Augusto, l’uomo che gli aveva “strozzato” la vita, che era morto a 76 anni.
L’adolescenza, la giovinezza e la maturità
Era nato il 16 nov. del 42 a.C. a Roma. Il padre, membro della famiglia Claudia, aveva parteggiato per i congiurati e poi per Antonio. Per questo, nell'inverno 41-40, era fuggito in Grecia. In queste peregrinazioni aveva condotto con sé la moglie Livia Drusilla e il piccolo Tiberio. Tornarono a Roma nel 38.
E qui successe un primo evento importante.
Ottaviano s’innamorò di Livia, vedendo in ciò anche la possibilità di unire i
destini delle due grandi famiglie patrizie Giulia e Claudia. A Livia fu imposto il divorzio anche se era
prossima a partorire il secondo figlio Druso.
Tiberio non aveva, quindi, ancora quattro anni quando dovette
abbandonare il padre e trasferirsi con la madre nella casa di Ottaviano. Il
padre morì quando lui aveva nove anni.
Insieme con Druso fu adottato da Ottaviano
diventandone il figliastro. I meriti militari ne fecero, per sua esclusiva
virtù, il miglior Generale del tempo. Cominciò le campagne militari quando
aveva solo sedici anni. A 22 anni andò presso il Re dei Parti per ritirare le
insegne delle Legioni di Crasso.
Insieme al fratello Druso, sviluppò l'attività
militare più intensa che doveva portare la frontiera romana fino al Danubio.
Operò Macedonia, in Mesia, in l'Illiria. A lui si deve la conquista della
Pannonia (odierna Ungheria).
Nel 9 mentre era ancora in Pannonia, seppe della
morte del caro fratello. A lui spettava ora proseguire la guerra in Germania e
vi ottenne nuove vittorie.
Augusto gli combinò il matrimonio con Vipsania, la
figlia di Agrippa e fu un grande amore.
Ma, dopo alcuni anni, nell'11 a.C., Augusto s’intromise, ancora una
volta, nella sua vita imponendogli di divorziare da Vipsania e di sposare la
figlia Giulia, diventata vedova di Agrippa.
Era il terzo uomo cui Augusto dava in sposa la
figlia. I primi due, Marcello ed Agrippa, entrambi deceduti, erano stati
indicati come successori di Augusto.
Il matrimonio con Giulia non sembrava, però,
innalzarlo automaticamente nell'attenzione di Augusto, qualificandolo come suo
erede. Anzi l'interesse dell'Imperatore
si orientò verso i due nipoti Caio e Lucio Cesari, figli di Giulia ed Agrippa.
Tutto ciò, unito allo sfrontato comportamento di Giulia, lo indusse all'esilio
volontario a Rodi dal 5 a.C. al 2 d.C..
Per nascita, beni di fortuna e educazione sarebbe stato destinato al successo, e tuttavia ogni cosa per lui era andata male; aveva dovuto rinunziare a sua moglie, aveva perso il fratello, aveva adempiuto con energia e coscienza qualunque missione gli fosse affidata, dimostrandosi valoroso Soldato e capace Comandante, ed ora si vedeva messo da parte per uomini più giovani. La condotta immorale della moglie avrebbe ben meritato il ripudio. Ma Giulia era la figlia di Augusto e Tiberio non ebbe il coraggio di farlo. All'età di 36 anni, deluso e disgustato, improvvisamente, si ritirò in un volontario esilio di studioso a Rodi, dove sarebbe rimasto sette anni.
Tornò il 2 d.C., riportato a Roma dalla tragicità
degli eventi e dai maneggi della madre. Tre anni prima Giulia era stata
relegata a Ventotene e nello stesso anno era morto Lucio Cesare. Il rientro al
servizio dello Stato avvenne solo il 4, dopo che nel frattempo era morto anche
Caio Cesare. I soldati delle Legioni
germaniche e danubiane salutarono con gioia il suo ritorno.
Finalmente avvenne l'adozione da parte di Augusto
con il conferimento del potere proconsolare e della tribunicia potestas per 10
anni.
Tiberio collaborò nel governo dell'Impero,
impegnato quasi sempre in dure campagne militari in Illiria ed in Germania.
Nel 14, alla morte di Augusto aveva 56 anni.
Augusto doveva aver avvertito il problema della
differenza di carattere fra sé ed il successore. Ma il carattere serio e
scrupoloso di Tiberio costituiva la migliore garanzia di continuazione della
nuova amministrazione da lui imposta.
Il carattere
Il rapporto fra un figlio ed il patrigno è sempre difficile e questo fra Augusto e Tiberio lo fu in modo particolare. La sua vita sarebbe stata sicuramente diversa, se non avesse avvertito il duraturo astio del patrigno e se non fosse stato costretto a lasciare la donna amata. Il ricordo di quella violenta intromissione nella sua vita intima lo perseguitò fino alla morte. Quando gli avveniva di incontrare la sua ex moglie gli occhi di quest'uomo acido si velavano di pianto. E questo, in parte, lo riscatta ed in parte ci aiuta a comprenderlo maggiormente.
Rude ed amante dei fatti più che delle parole.
Severo prima con se stesso e poi con gli altri. Disumanamente gelido e rigido
nell'autocontrollo, pedante ed apprensivo nell'amministrazione. Ma i Soldati, il cui sangue egli risparmiava
con la massima cura, lo apprezzavano anche per questo e, al momento buono, lo
preferivano ai Capi più brillanti e più popolari.
Tiberio fu considerato un arido, ma aveva anche sentimenti forti, come dimostrò nei riguardi del fratello Druso e della moglie Vipsania da cui fu costretto a divorziare per volontà d’Augusto che gli dette in moglie la figlia Giulia. E sentimento forte fu anche quello d’ubbidienza e lealtà nei confronti del patrigno-genero, in tutte le numerose missioni che gli furono affidate.
Si considerava doverosamente "servitore della
comunità", formulando così il principio reso famoso da Federico II che il
Sovrano è il primo servitore dello Stato. Aveva un carattere tetro e chiuso.
Rifuggiva dai segnali d’ossequio. Aveva un viscerale odio per la
superficialità, l’ipocrisia e l'adulazione. Non voleva che gli fossero dedicati
templi o erette statue.
Tanto Cesare che Augusto avevano accettato gli
uomini per quello che erano, ma Tiberio non ne fu capace: gli mancava la grazia
nel trattare con gli uomini e il tatto che Augusto aveva posseduto in grado
così alto.
Gli inizi del Principato
Aveva 56 anni quando fu chiamato al potere. Era
ormai scontento e stanco, capace e pieno di esperienza, con un'ampia conoscenza
delle necessità dell’Impero, ma con le virtù di un subordinato piuttosto che di
un Capo. Era un Generale cauto ed abile, ma nella vita civile e nei rapporti
con il Senato non era a suo agio. Lunghi anni passati obbedendo l'avevano reso
diffidente ed autocritico, cosicché, chiamato ad affrontare una situazione
improvvisa o un caso senza precedenti, soleva vacillare ed esitare.
Tiberio non era fermamente convinto ad accettare
il pesante fardello dell'eredità di Augusto. Fu spinto ad accettare anche dalla
volontà del Senato. Gli furono consessi l'imperium
proconsolare e la tribunicia potestas
non per un determinato periodo, ma a vita.
Era dichiarato esplicitamente il primo Imperatore
di Roma. Cesare lo è stato per gli storici, Augusto lo fu sul piano
sostanziale, Tiberio fu il primo ad esserlo anche sul piano formale. Il 17
settembre del 14 d. C. era iniziato il Principato.
Unico era il modello che il nuovo Princeps poteva
seguire: quello del suo predecessore. Durante tutto il suo regno, infatti,
dimostrò un rigido rispetto per la tradizione augustea e osservò con cura tutte
le istruzioni di Augusto.
Dette subito un esempio di moderazione rifiutando
gli onori verso la madre Livia che il Senato aveva decretato. Le negò anche la
concessione di un littore e l'erezione di un altare.
Altro problema cui si trovò subito di fronte fu una ribellione dei soldati delle Legioni della Pannonia e del Reno, queste ultime comandate dal nipote Germanico. Con l'ammutinamento delle Legioni entrava in crisi lo strumento che difendeva la sicurezza dell'Impero. Esse protestavano contro l'aumento della ferma da 16 a 20 anni e chiedevano un aumento del soldo. Le proteste erano anche innescate dall’invidia per il più comodo, più breve e più lautamente pagato servizio dei pretoriani.
Tiberio affrontò e risolse la questione con prudenza e fermezza. Non vi furono sensibili conseguenze. Il soldo dei Legionari rimase com'era sotto Augusto (225 denari all'anno) e la ferma, qualche anno dopo, fu riportata a 20 anni. L'esercito rimase saldamente nelle mani di Tiberio, sicuro strumento della forza dell'Impero.
Come Augusto, fu rispettoso delle prerogative del Senato. Proprio all'inizio del suo Principato l'importanza del Senato fu accresciuta da un importante cambiamento, cioè dal completo trasferimento delle funzioni elettive dal popolo al Senato, che diventava corpo elettorale. Tiberio non fu l'autore di questo cambiamento, ma, semplicemente, realizzò un progetto che Augusto aveva formulato e lasciato scritto. Da allora in poi il Senato divenne l'unico organismo elettorale, mentre il popolo chiaramente non aveva voce in capitolo. Questa fu una delle ragioni per cui, fin dall'inizio, presso le classi umili, la figura dell'Imperatore apparve sotto una cattiva luce.
Dopo essere diventato un corpo elettorale, il
Senato diventò anche Corte di giustizia sotto la presidenza dei Consoli per
giudicare i reati dei propri membri o dei Cavalieri oppure quale sede
d’appello. L'appello supremo era
riservato al Principe (sono qui le radici del concetto dei tre gradi di
giudizio previsti ancora oggi dall'ordinamento giuridico italiano).
Durante tutto il suo Principato, Tiberio si
comportò con il Senato con gran deferenza e rispetto, consultandolo spesso,
anche su questioni minori. Fu, comunque, deluso dall’apatia e dall’incapacità
di un Senato che non raccolse i suoi stimoli. Lentamente, venne una crescente
irritazione per l'incompetenza e l'esitazione di un Senato che non osava
decidere da solo ed era solito rinviare tutte le questioni importanti al
Princeps. Ogni tanto, riferendosi ai Senatori, esclamava: "Uomini fatti
per servire".
Di fronte all'inerzia del Senato finì per
adoperarsi da solo e ricorrere all'ordine equestre che sotto di lui proseguì la
sua ascesa.
Per alcuni anni riuscì a governare con successo.
Tutte le fonti parlano concordemente di un buon inizio del suo regno, ma non
sono altrettanto concordi sul periodo finale. Una conveniente linea di
delimitazione tra i due periodi può essere considerato l'anno 26 in cui Tiberio
si ritirò da Roma.
Odiava i giochi, la lotta dei gladiatori. Vedeva in essi solo uno spreco di danaro. Non gli erano graditi neppure i poeti e quei circoli letterari che tanta parte avevano avuto nella propaganda a favore d’Augusto. Una proposta di denominare Tiberius il mese di novembre fu da lui respinta con questa domanda: "Che cosa farete quando avrete tredici Cesari ?"
Germanico
Germanico era nipote di Tiberio poiché figlio del fratello Druso. Alla morte di questi era stato adottato da Tiberio. Fu impegnato al comando di azioni militari in Germania senza effetti risolutivi. Tiberio avrebbe desiderato una condotta più diplomatica, tendente a fomentare discordie fra le tribù germaniche, secondo il vecchio motto "divide et impera". Non gli piacevano le imprese da dilettante. Inoltre lo urtava la popolarità di Germanico e di sua moglie Agrippina.
Dopo il periodo renano, Germanico fu inviato a combattere sulla frontiera orientale. Ma, poco dopo, cadde malato e morì. Si era nel 19 d.C.. La sua morte aprì un solco tra Agrippina e Tiberio; nulla poteva persuadere la vedova che l'Imperatore non avesse in qualche modo voluto la morte del marito.
Anche in termini strategici, Tiberio si attenne strettamente alla politica avviata da Augusto. Egli era stato sempre un Soldato, ma non si fece trascinare dalla sua estrazione militare e, condividendo in pieno l’impostazione strategica del predecessore, tento di evitare ulteriori espansioni del territorio dell’Impero. Ed in questo dimostra, ancora un volta, che i militari sono i più sensibili alle esigenze della pace sia per la profonda conoscenza della natura e degli effetti del fenomeno guerra sia per intima convinzione culturale.
Ebbe la pronta intelligenza di abbandonare i
tentativi di riprendere la guerra con i Germani per vendicare le Legioni di
Taro e per riportare il confine all'Elba. Conosceva bene quell’ambiente
naturale ed umano ed era convinto che fosse possibile ottenere più con le arti
diplomatiche che con le armi. Aveva a cuore la vita dei suoi Soldati e sapeva
bene che un atteggiamento offensivo avrebbe comportato sensibili perdite. Era
più opportuno raccogliere i frutti dei semi della discordia gettati fra le
fiere popolazioni avversarie ove già emergevano i contrasti fra Arminio e
Maroboduo.
I romani si attennero al motto “Divide et impera”
ed assistettero, da spettatori, alle lotte intestine fra i Germani che si
conclusero fra il 7 ed il 19. Gli eventi dimostrarono la validità della sua
strategia: Arminio e Maroboduo caddero entrambi vittime del tradimento. Arminio
fu assassinato, Maroboduo costretto a ritirarsi in Italia. Sorsero i primi regni clienti alla frontiera
settentrionale. Questi eventi coronavano la sua paziente diplomazia. Ed aveva
ragione. Dovevano, infatti, passare ancora 50 anni prima che si verificassero
gravi turbamenti da parte delle tribù germaniche. Reno e Danubio segneranno il
confine tra Romani e Germani per circa un secolo, fino a Traiano.
La stessa strategia fu adottata alla frontiera orientale. Da buon militare, in quest’area, Tiberio vedeva, oltre alle complesse implicazioni politiche, anche le difficoltà operative vere e proprie che avrebbero reso estremamente difficile ogni azione. In fondo, vi era una serie di Stati che con un ordinamento o con l’altro rientravano tutti sotto il controllo diretto od indiretto di Roma. Di fronte all’Impero romano si ergeva il Regno dei Parti, quasi della stessa ampiezza sia pure con minori vincoli istituzionali. La conquista di questo regno avrebbe teso all’estremo la tensione delle capacità operative delle Legioni romane. E, d’altronde, grazie anche all’abile politica condotta da Augusto, non vi era un sostanziale contenzioso con quel regno. Unico motivo di frizione era l’influenza da esercitare nei riguardi del regno dell’Armenia, ma la cosa poteva essere controllata con un atteggiamento di equilibrio e fermezza ed alimentando le discordie nel campo avversario.
Nel 23 d.C., fu colpito da un altro grande dolore.
Morì in circostanze mai chiarite Druso, l'unico figlio che Tiberio aveva avuto
da Vipsania e perciò doppiamente caro. Il fato gli aveva inferto un altro colpo
crudele. Si trovò, all'età di sessantaquattro anni, privo del figlio e
dell'erede.
Una triste figura venne ad assumere progressivamente molta importanza, Seiano, Prefetto del Pretorio. Questi, con grande abilità, era riuscito a riscuotere la fiducia dell’Imperatore (e fu uno dei pochi, considerata la sua natura diffidente). Tiberio si fidava di lui anche perché lo aveva salvato coprendolo con il suo corpo in occasione del crollo di una grotta.
Il prestigio del Capo pretoriano aumentò tanto che, lentamente, Seiano arrivò addirittura ad ipotizzare una successione allo stesso Tiberio.
L’influenza di Seiano era favorita dalla situazione di solitudine in cui, col tempo, venne a trovarsi l’Imperatore. La morte del figlio Druso era stato un colpo doloroso che lo aveva portato a rinchiudersi maggiormente in se stesso. Ebbe il sospetto che in questa morte avessero avuto una loro parte gli intrighi di corte e questo fece aumentare ancora di più la sua avversione per l'ambiente romano. In realtà, dietro la morte di Druso vi era la potente mano dello stesso Seiano che circuì Livilla, moglie di Druso, spingendola ad avvelenare il marito.
In quei giorni moriva anche Vipsania, l’adorata prima moglie, quell'amore mai dimenticato. Ormai aveva 63 anni, si sentiva stanco e sul declino della vita.
Cominciò sempre più frequentemente a ritirarsi nelle sue ville campane. Lo allontanava dal popolo il suo carattere, ombroso, scontroso, senza sorriso. Quanta differenza con le personalità pur così diverse di Cesare ed Augusto da cui il popolo si era lasciato sedurre!
Negli ozi campani si rendeva sempre più conto di non amare Roma, una città ormai mostruosa con il suo milione d’abitanti. Non amava la città degli sprechi, dei complotti, della corruzione, dell’adulazione e della iattanza dei nobili.
Tutto ciò lo convinse a realizzare un piano da qualche tempo accarezzato ed a ritirarsi da Roma. Aveva 67 anni. Alla decisione concorse anche il fatto che il suo volto era sfigurato da un erpete.
Per il suo allontanamento dalla vita pubblica scelse l'isola di Capri, che Augusto aveva acquistato da Napoli cinquant'anni prima. Su quest'isola di quattro miglia quadrate, dotata di un clima divino, si ritirò nel punto più alto e più inaccessibile. Poteva finalmente sperare nell’isolamento e nella pace e curare il suo genuino amore per la cultura e la scienza. L’isola assecondava un desiderio di solitudine che ormai sconfinava nella misantropia.
Si stabilì a Capri nel 27. Dopo 13 anni, governava Roma attraverso Seiano esautorando quel Senato di cui, all'inizio del suo Impero, aveva aumentato dignità e poteri. Per agevolare le comunicazioni si realizzò un sistema di segnalatori ottici fra Capri e la costiera sorrentina.
Il ritiro fu un fatale errore ed ebbe le più serie
conseguenze. Sebbene Tiberio lavorasse
costantemente e non diminuisse per nulla la sua cura per l'impero, il suo
comportamento era giudicato disperazione e diserzione al dovere, e mentre egli
perdeva il prestigio sul popolo, il Senato sentiva sottolineata in modo
evidente la propria inferiorità e dipendenza dal Princeps. Da allora in poi il Senato ricevette lettere, dispacci,
richieste, suggerimenti, ordini e si sentì impotente di fronte alla volontà di
un despota inaccessibile. Cosa più sinistra ancora, la posizione di Seiano era
ulteriormente rafforzata.
Questo periodo fu caratterizzato anche dalla
celebrazione di un elevato numero di processi per "lesa maiestatis".
A Tiberio è stata fatta risalire la grave responsabilità di questo turpe
fenomeno. In realtà, occorre
riconoscere che proprio con Augusto erano state introdotte due leggi (Papia
Poppaea e Julia de maiestate) che, oltre ad essere lesive della libertà
personale, erano formulate in maniera vaga e soggette, quindi,
nell'applicazione, all'arbitrio di denuncianti, inquirenti e giudici. In sintesi esse permettevano ogni
persecuzione legale.
Questa manchevolezza del sistema giudiziario fu
abilmente sfruttata per lotte personali o politiche specie ad opera di Seiano,
il Prefetto del Pretorio. Tiberio tentò di esercitare un'influenza moderatrice.
Egli non volle, per prima cosa, considerare imputabili di maiestas le espressioni diffamatorie contro la sua persona. Rimane
comunque sua grande colpa, il fatto di non aver capito od intuito l'ampiezza e
la profondità del fenomeno e non aver operato, quindi, interventi correttivi
più risolutivi.
I frequenti processi, i maneggi di Seiano, le
ricorrenti congiure furono tutti momenti di una sordida lotta, disgraziatamente
introdotta dal sistema dinastico, che caratterizzerà la seconda parte del regno
di Tiberio e ne circonderà la figura di luce sinistra.
La crisi non si estese all'Impero, ma fu limitata
solo all'Urbe ed alla Corte.
Non tornò più a Roma. Non lo fece neanche nel 29 d.C., quando morì la madre Giulia che tanta parte aveva avuto nella sua designazione ad erede di Augusto.
Seiano era diventato potentissimo a Roma ed aveva riunito nella Capitale tutte le nove Coorti Pretorie, alloggiate nell'area che ora è chiamata Castro Pretorio.
Continuavano i reciproci complotti di Seiano e d’Agrippina. Il primo per raccogliere l'eredità di Tiberio e la seconda per imporre un figlio nella linea di successione.
Seiano riuscì ad avere la meglio e fece relegare Agrippina sull'isola di Ventotene dove morirà nel 35. Fu esiliato anche il figlio Nerone, inviato a Ponza (poi si ucciderà). L’altro figlio di Agrippina, Druso fu incarcerato ed ivi morirà.
Ma anche i raggiri di Seiano furono scoperti e
portati a conoscenza di Tiberio.
La sua vendetta non fu immediata, ma quando arrivò
fu la più perfida poiché condita dalla beffa. Il 18 ottobre del 31, Seiano fu
convocato in Senato facendogli credere che gli sarebbe stata comunicata la
designazione quale erede. In realtà fu
letta una lettera con cui l'Imperatore rivelava le sue nefandezze, lo incolpava
di tradimento e ne ordinava l'immediato arresto. Il Senato lo condannò a morte
per strangolamento e la sentenza fu eseguita nella stessa serata.
Si scatenò a questo punto la caccia ai familiari
ed ai seguaci di Seiano, Ed in questo quadro, a Tiberio fu inviato un documento
della moglie di Seiano che dava il colpo finale alla sua agonia spirituale:
apprendeva che suo figlio Druso non era morto di morte naturale; Livilla, la
sua consorte, aveva commesso adulterio con Seiano e i due lo avevano
avvelenato.
La sua ragione cedette alla paura, alla
commiserazione di se stesso ed alla brama di vendetta. Seguì qualcosa molto
simile ad un regno del terrore. Scamparono pochissimi sostenitori di Seiano
mentre Livilla fu costretta a uccidersi.
La tradizione, non contenta di abbandonarlo alla vecchiaia e alla miseria, lo stigmatizzò in modo tale che il nome di Tiberio è divenuto simbolo di vizi contro natura e sensualità. La sua misantropia si avvicinava sempre più alla follia. Si vociferò anche di perversioni sessuali.
Tuttavia, anche nella vecchiaia e nella solitudine, Tiberio trovò il tempo di sovrintendere accuratamente, come sempre, all'Italia ed all'Impero: negli affari esteri non vi fu un ristagno di potenza o d'interesse e lo stesso accadde per la politica interna.
Nel 35 fece testamento designando quale erede il
nipote Caligola, terzogenito di Germanico. La scelta gli sembrò coerente con la
volontà di Augusto che, per lui, era ancora legge. Ma gli si può formulare
l’addebito di non aver coinvolto l’erede in incarichi di responsabilità in
campo militare o di governo.
Nel 37 abbandonò l'isola per una battuta di caccia nel Circeo. Ma ebbe una crisi, fu creduto morto e si avviarono già i festeggiamenti per il nuovo Imperatore Caligola. Ma, fra lo stupore di tutti, si riprese. Provvide allora il Prefetto del Pretorio a soffocarlo con vari cuscini.
Era il 16 marzo del 37. Aveva regnato per 23 anni.
Aveva 78 anni. Morendo non disse una parola e questo si addiceva ad uno
scorbutico come lui.
Conclusione
Così finì il successore di Augusto. L’esame della sua opera, mettendo in luce virtù e difetti, meriti e colpe, conduce ad un giudizio nettamente positivo per l’amministrazione dell’Impero, parzialmente negativo per l’uomo, come capo della sua famiglia e depositario dell’idea del Principato.
Era stato impegnato fortemente nel servizio dello Stato, con la coscienza del dovere caratteristica dell'aristocratico romano di vecchio stampo.
Nell'amministrazione delle provincie aveva fatto
sentire la sua mano forte, senza essere oppressivo ("Il buon pastore tosa
le pecore, non le scortica") e controllando assiduamente i
Governatori. Se uno di essi non si
dimostrava adatto al suo compito era subito rimosso dalla carica. La sua
severità era celebre: un Procuratore richiamato dalla sua provincia, si uccise
prima di affrontare il processo.
All’esterno, quindi, riuscì totalmente ad assolvere il suo compito, tanto che l’Impero non solo non risentì delle sordide lotte condotte a Roma, ma assorbirà senza scosse anche i gravi momenti di crisi dei successivi Imperatori Caligola, Claudio, Nerone ed altri.
All’interno, invece, fu condizionato in modo
determinante dai suoi limiti caratteriali, dall’ambiente familiare e di corte,
che era portato a disprezzare, ma soprattutto, dal Senato. Quel Senato che
all’inizio volle più indipendente ed efficiente e che, alla fine, fu lasciato
ancora più servile ed incapace, tanto da rendere possibile l’avvento della
tirannide come, talvolta, succederà con gli Imperatori successivi.
In Tiberio si salva, in ogni caso, l’onestà delle intenzioni che, in un giudizio complessivo, lo porta ad essere considerato come uno dei migliori Imperatori.
La guida dell’Urbe e dell’Impero era passata dalla famiglia Giulia a quella Claudia. Lo splendore andrà via via affievolendosi fino a quando le sorti non saranno affidate alla famiglia Flavia, con Vespasiano e Tito.