MARCO AURELIO

 

 "La storia lo ricorda più per la sua passione verso la filosofia stoica che per le sue imprese militari. Eppure fu un condottiero che diede prova di mirabile visione strategica, ristabilendo l'ordine e la pace in Oriente e lungo le rive del Danubio e ricacciando i barbari che avrebbero potuto minare l'integrità dell'impero"

 

Da Traiano a Marco Aurelio

Nel 117 d.C., con la morte di Traiano, si esaurisce la spinta offensiva dell’imperialismo romano. Il successore Adriano, infatti, modificò sensibilmente la politica espansionistica rendendosi conto che l’Impero stava diventando troppo grande per Roma. Emblema di una nuova politica difensiva fu il “Vallum Hadriani”, un muro che divideva in due la Britannia. Adriano fu animato da grandi interessi culturali e fu sempre in “foglio di viaggio” perché per la gran parte dei suoi 21 anni di regno visitò tutte le provincie dell’Impero. Gli succederà, nel 138, Antonino che regnerà per 23 anni e sarà detto il Pio perché durante il suo regno non si verificarono guerre. Antonino Pio non si mosse quasi mai da Roma a differenza del predecessore. Fu un uomo di eccezionali virtù e se ne andò senza grandi clamori così come tranquillamente era vissuto ed aveva retto lo Stato (161). Già da 15 anni aveva scelto quale co-reggente il genero Marco Elio Aurelio Vero Cesare, detto Marco Aurelio, che rivelava inclinazioni culturali e gusti simili ai suoi.

 

La vita ed il carattere

Marco Aurelio era nato a Roma nel 121 d. C., da una famiglia di origine spagnola. Era parente di Adriano e sposò la figlia di Antonino Pio, Faustina.

Da Faustina ebbe quattro figli: due femmine e due gemelli. Di questi uno morì precocemente e l'altro, Commodo, sarà il suo successore.

Veniva dalla famiglia spagnola degli Aureli che si erano guadagnati il soprannome di "Veri" per la loro onestà.  Era rimasto orfano a pochi mesi e della sua educazione si occupò il nonno che gli dette 17 precettori di cui 4 in grammatica, uno in matematica e sei in filosofia.

Si appassionò alla filosofia stoica che non solo volle studiare a fondo, ma anche praticare.  A 12 anni cominciò a dormire nudo sul letto ed iniziò una dieta ed un'astinenza (anche sessuale) tanto severe che la sua salute alla fine ne risentì.  Ma questo non gli impedì poi di essere soldato fra i soldati e di condividerne fatiche e disagi nei lunghi anni di direzione della guerra alla frontiera germanica.

Antonino Pio lo aveva designato come suo Cesare quando era ancora adolescente ed associato al suo governo quando era ancora giovanissimo.

Quando Marco fu coronato, tutti i filosofi dell'Impero esultarono vedendo in lui il realizzatore dell'Utopia.  Ma la filosofia di Marco Aurelio era stata temperata dal lungo tirocinio fatto con Antonino Pio, un conservatore realista ed un poco scettico. Da buon moralista credeva di più nell'esempio e cercò di darlo con una condotta di vita ascetica. I Romani che si tramandavano ancora le dissolutezze di Caligola e Nerone dovettero sicuramente apprezzarlo, anche se, forse, non si sforzarono di imitarlo.

Quando salì al trono aveva 40 anni ed operò un provvedimento che si verificava per la prima volta nella storia imperiale romana: associò a sé stesso Lucio Vero, figlio adottivo di Antonino Pio. E' da pensare che lo facesse considerando la propria fragilità di corpo e il desiderio di dedicarsi alla filosofia, e trovando invece nel giovane Lucio ciò che mancava a lui, cioè la robustezza fisica e le qualità necessarie per le campagne di guerra.

Così per iniziativa di Marco, Roma e l'impero ebbero per la prima volta, e per la durata di circa otto anni, due augusti di uguali diritti. La scelta si rivelerà subito sbagliata perchè Lucio Vero era di tutt’altra pasta: uomo di mondo, donnaiolo, gaudente, senza alcuna inclinazione per qualsiasi compito di seria responsabilità. La convivenza durò otto anni fino alla morte di Vero. Ma, fin dall’inizio, Marco Aurelio fu il solo a sopportare il peso di ogni responsabilità. 

Probabilmente non aveva né inclinazione per le armi, né esperienza di esse.  Ma costretto ad impugnarle ed a combattere per quasi tutta la durata del suo regno, adempì al dovere del Principe, alla testa del grande apparato difensivo, del quale, per la prima volta, dopo l'assetto adrianeo, fu messa a seria prova l'efficienza, con risultato nel complesso positivo. 

 

La guerra ad Oriente (161 – 166)

I primi anni del regno furono dominati dalla guerra in Oriente.

Il motivo immediato fu ancora una volta la questione dell'Armenia, preda secolare contesa fra i romani ed il regno dei Parthi.  Le fonti sono concordi nell'attribuire al re armeno Vologese l'iniziativa e i successi iniziali, tanto più notevoli in quanto i Romani, che da anni aspettavano la guerra, non furono colti di sorpresa ma soverchiati di forza, indicano la vastità del disegno strategico e l'imponenza dei mezzi impiegati.

La guerra che Marco doveva affrontare era effettivamente giusta. Diede incarico a Vero di partire per l'Oriente per arginare la critica situazione in atto. Vero però non aveva fretta, si ammalò a  Canusium, quindi lentamente, di isola in isola, raggiunse l'Antiochia verso la primavera del 163.  Tuttavia, in quel momento lo spiegamento delle forze imperiali era completo.  L'esercito di Siria era stato riorganizzato per opera di un siriaco orientale, il duro Avidio Cassio.

In pratica, tutto il piano della operazioni contro i Parti fu elaborato da Marco Aurelio e posto in atto dai valenti Generali che lo stesso Marco Aurelio aveva inviato a sostegno di Lucio Vero. 

Le vicende della guerra, durata fino al 166 e distinta in tre fasi principali, armeniaca (161-163),  partica vera e propria (163-165),  medica (165-166), non sono ricostruibili con certezza.

Le operazioni furono dirette dai Legati e con abilità e fortuna, grazie anche al tempestivo riordinamento ed al severo addestramento dell'esercito; già prima della fine del 163 concludeva la vigorosa controffensiva condotta in Armenia, con la presa e la distruzione della capitale Artaxata.

L'Armenia non venne ridotta a provincia, ma rimase regno indipendente protetto dalle armi romane, come sotto Adriano.

Marco Aurelio non si accontentò di questo iniziale successo. Si rese conto che se voleva la tranquillità doveva annientare il nemico. Non si ritenne pago di aver vendicato l'onore delle armi di Roma e di fare dell'Armenia ancora una volta un protettorato romano.  Il successivo vigoroso attacco contro la Parthia attesta che egli pensava almeno ad una difesa di carattere offensivo.  In un certo senso facendo sue le idee di Traiano, operava nello spirito dell'imperialismo romano.

L’offensiva si sviluppò in Mesopotamia. L'Eufrate fu passato, probabilmente gettando un  ponte di barche, nonostante la forte resistenza nemica.

Un'armata puntò verso Oriente penetrando al di là del Tigri, nel cuore stesso dei domini partici.  Un'altra colonna puntò verso sud lungo l'Eufrate, comandata direttamente da Avidio Cassio.  Ctesifonte, la capitale partica, fu distrutta. 

La spedizione partica fu conclusa nel 165.  Con essa era virtualmente terminata l'intera guerra, anche se le operazioni oltre il Tigri settentrionale si protrassero fino all'inizio del 166. 

Il prestigio romano era stato ristabilito, e riaffermata quella superiorità dell'Impero sull'Oriente. Ma soprattutto era stato dimostrato che la ferrea organizzazione dell'impero, così come si era venuta consolidando sotto gli ultimi Principi, era ancora sufficiente per superare le crisi di questo genere. 

Ma la vittoria non fu completata come era nei disegni del Principe a causa di una grave emergenza. Nell'autunno del 165 fra le truppe di Cassio a Seleucia scoppiò una pestilenza le cui conseguenze si andarono facendo sempre più terribili, fino a che, la primavera successiva, l'esercito dovette ritirarsi.

Il vasto comando su tutto l'Oriente fu assegnato ad Avidio Cassio, contando sulla sua nota energia per dominare la situazione. 

 

Terminate le operazioni alcune Legioni tornarono in Italia e portarono con sé il contagio. La peste giunse anche a Roma spargendo lutti e desolazione lungo il suo cammino. Nella sola Capitale morirono oltre 200.000 persone.   Essa avanzò fino al Reno e, anno dopo anno, sparse la miseria fra le popolazioni dell'impero. Dietro l'epidemia si profilava la carestia perché nessuno più lavorava.

Era giunto il momento della pace in Oriente, ma la peste avvelenò e amareggiò anche la gioia per quanto era stato realizzato.

 

La guerra sul Danubio ed alla frontiera germanica (167 – 180)

Mentre la peste infuriava nella stessa Roma,  giunse un'altra grave crisi esterna. Ora cominciò la serie di dure guerre sul Danubio, che doveva occupare, con brevi interruzioni, i rimanenti anni del regno di Marco.  Pur essendo sempre, vista dall'interno, una crisi di frontiera, alla fine validamente contenuta dall'apparato difensivo e superata dall'ancor rigogliosa vitalità dell'organismo imperiale, tuttavia per il suo quasi repentino manifestarsi, dopo sessant'anni di relativa pace nel settore, per la sua gravità e durata, e per la vicinanza del pericolo all'Italia, che venne addirittura toccata, dopo secoli, da piede barbarico, essa suscitò grande impressione nei contemporanei.

Quali le motivazioni di queste guerre?

Una fascia di Stati in rapporto di più o meno stretta clientela con i Romani si estendeva al di là del Reno e del Danubio, dal Mare del Nord al Mar Nero. Oltre quei grandi fiumi solo la Dacia annessa da Traiano, con le dipendenze transdanubiane della Mesia, facevano direttamente parte dell'impero.

I soli che avessero un legame permanente con Roma, nella forma della clientela, erano i popoli della fascia descritta. Essi facevano da cuscinetto contro gli attacchi dei popoli più interni, coi quali frequentemente erano alle prese per le ragioni caratteristiche del particolarismo germanico, accortamente volte da Roma a proprio vantaggio.  Così per decenni queste popolazioni, sicure dal lato dell'Impero ed interessate a mantenere buoni rapporti per tutti i benefici di cultura, di commercio ed anche di protezione che da esso venivano, adempirono a quella funzione.  Esse rimasero però sempre al di fuori dell'Impero; anche se amiche e alleate. I campi legionari e la linea delle fortificazioni erano eretti contro di loro e le separavano nettamente dal mondo considerato civile, ch'era soltanto quello all'interno del dominio romano. 

Questa idilliaca situazione creata nei pacifici decenni precedenti spiega la diminuzione d'importanza della guarnigione del Reno e la sorprendente assenza di campi legionari da Strasburgo a Vienna.

Ma ora si verificava un problema di sovrappopolazione che quei vari popoli germanici non sapevano risolvere per l’ignoranza della coltura intensiva. La fame li spingeva ad unirsi; la fame li spingeva ad andare tutti uniti, barbari del confine e barbari interni, all'attacco dell'Impero. In un certo senso si verificò quello che in un futuro più o meno lontano potrebbe avvenire nella contrapposizione fra il mondo industrializzato occidentale ed il cosiddetto terzo mondo od il mondo orientale e balcanico in disfacimento.

La situazione precipitò sotto la spinta di un grande movimento migratorio iniziato dai Germani del Baltico, forse a loro volta premuti da popoli scandinavi.

Le incursioni ebbero inizio nella Germania superiore e nella Rezia e furono  le chiare avvisaglie della lunga lotta che costrinse l'imperatore a lasciare Roma per gli accampamenti militari.  Qui, come si era già verificato cinque anni prima in Oriente, la crisi ebbe inizio con un disastro. 

Lungo il limes retico e il Danubio superiore non vi erano castra legionari. La difesa delle frontiere non fu abbastanza forte da resistere all'irrompere di queste orde nemiche, lasciando così aperta la strada verso le provincie e l'Italia.

Il nemico valicò le Alpi Giulie e giunse nell'Italia settentrionale dove pose l'assedio ad Aquileia allo sbocco delle strade alpine, distrusse Opitergium (Oderzo) e seminò il terrore fino a Verona: Roma tremò davanti a questa nuova invasione che ricordava quella dei Cimbri. Tuttavia l'avanzata dei barbari venne arrestata. 

Marco Aurelio affrontò questa crisi con tranquillità e decisione; piuttosto che imporre nuove tasse ai provinciali impoveriti, egli vendette gli oggetti d'oro e i tesori d'arte dei palazzi imperiali.

Percepì con grande lucidità la delicata situazione strategica, sicuramente più pericolosa rispetto alla precedente situazione in Oriente. La Parthia e la stessa Mesopotamia erano troppo distanti dal cuore dell'Impero per essere per sempre soggette al volere di Roma. Ora però si trattava di mantenere una linea difensiva d'importanza essenziale: se avesse ceduto, la cosa avrebbe significato pericolo, panico, rovina per l'Italia.

La frontiera renana e i suoi bastioni fortificati meridionali, insieme con il bastione dacico che sporgeva dal basso Danubio, si erano dimostrati le pietre angolari della difesa. Tuttavia lungo i meandri del corso superiore e medio del fiume, la frontiera correva molto più vicina all'Italia.  Il profondo saliente della pianura sarmatica ungherese rappresentava una perenne fonte di possibili perturbamenti ed un inutile prolungamento della frontiera imperiale.  Se le guerre combattute nel corso di due secoli fossero state coronate dall'annessione del territorio dei Marcomanni (area fra l’Elba e l’Oder) e successivamente da quello dei Quadi (tribù stanziate nell’odierna Moravia), la Boemia e la Moravia sarebbero diventati il baluardo settentrionale dell'Impero.

Gli interessi romani richiedevano l'offensiva e Marco la mise in atto con lungimirante intuito strategico. Malgrado la straordinaria resistenza del nemico l'obiettivo fu raggiunto. 

Quando si mise alla testa delle Legioni per la guerra sul Danubio molti dovettero sorridere: quell'omino fragile e macilento, abituato a una dieta vegetariana non sembrava adatto come trascinatore di uomini.  Eppure lo fu in modo mirabile e, con grande visione strategica, batté i suoi nemici uno ad uno (applicazione principio della massa).

Marco Aurelio si rese conto che l’apparato difensivo romano consisteva essenzialmente in una copertura di confine, senza altre truppe mobili di manovra all'interno che quelle esigue della  guardia pretoriana. Era così accaduto che reparti barbari sfondando la linea in punti isolati, si erano spinti anche in Italia, che non aveva alcuna difesa alle Alpi.

Provvide allora a costituire quello che mancava, cioè un esercito di manovra ed un sistema di protezione dell'Italia. Furono arruolate due nuove Legioni e costituito un apposito Corpo mobile di notevole forza (la Praetentura Italiae et Alpium), appoggiato ad un sistema di fortificazioni, stese ad arco per proteggere i passi delle Alpi centro-orientali, dalla Rezia alla Dalmazia. 

Furono poi costituite altre forze non assegnate ad un settore del confine, ma destinate a servire come truppa mobile. Con ciò si suppliva alla pesantezza divenuta eccessiva dell'esercito stanziale, ancorato ai suoi campi.  Fu curata in modo particolare la selezione dei Comandanti che si dimostrarono tutti uomini di prim'ordine.

L’offensiva cominciò e ben presto le schiere di barbari calati in Italia scomparvero al di là delle Alpi.  Ma la meta  della spedizione non era certamente Aquileia.  Marco passò in Pannonia. 

Diresse le operazioni dall'accampamento di Carnuntum.  In tale località per tre anni fu posto il suo quartier generale, come era stato con Tiberio prima e Traiano poi.

Nonostante la soddisfacente sistemazione Marco era però convinto che la situazione rimaneva precaria, che il compromesso coi barbari doveva durare poco, e che la soluzione radicale poteva essere imposta solo portando la guerra nei paesi nemici, restaurando e conservando con la forza il vincolo di clientela e l'assetto preesistente.

Curò l'ulteriore potenziamento delle Legioni, con estesi arruolamenti. La forza disponibile, con dodici Legioni intere e con numerose Vessillazioni, dovette essere la più imponente che mai sia stata schierata fra la Rezia e la Dacia.

Arruolò, come nella guerra punica, schiavi e gladiatori ed ingaggiò mercenari germani: "Germanorum auxilia contra Germanos". 

Il complesso delle predisposizioni adottate rivelano la fermezza dell'Imperatore e la vastità della crisi, ed attestano ancora una volta l'intuito militare e politico di Marco Aurelio, che non solo protesse le provincie interne e le comunicazioni fra Oriente ed Occidente, ma si garantì la base per ogni movimento di avvolgimento o di fiancheggiamento che potesse venire utilizzato contro il nemico. 

Così la situazione dell'Italia e dell'Illirico fu riportata alla normalità.

Ebbe inizio allora la spedizione Germanica e quella Sarmatica, che immediatamente la seguì. La guerra si sviluppò su vasto fronte specie contro i Marcomanni ed i Quadi, appoggiati dai Jazigi (tribù provenienti dalla Russia meridionale che avevano occupato zone della Mesia).

Il piano generale dell'offensiva tendeva a spezzare l'unità della coalizione barbarica, a combattere le nazioni ad una ad una, e possibilmente a metterle l'una contro l'altra.

Penetrato al di là del Danubio, Marco condusse la guerra con una fede nel divino e ciò non solo esprimendo la sua propria elevata religiosità, ma aderendo anche ai culti e alle superstizioni dei soldati che attribuivano al loro Imperatore capacità divine. Fiorirono credenze come quella del fulmine che, in seguito ad una preghiera di Marco, incenerì una macchina da guerra dei nemici. O quella della pioggia miracolosa che salvò i Romani ridotti a mal partito dal caldo e dalla sete durante una grande battaglia, così trasformata da sicura sconfitta in vittoria.

In successione furono sconfitti i Quadi, i Marcomanni ed infine gli Jazigi. 

La pace fu concessa a dure condizioni fra cui quella di lasciare vuota, oltre il Danubio, una striscia di terra vuota di dieci miglia, presidiata da reparti romani.

Dopo le guerre contro i Quadi, i Marcomanni ed i Jazigi, l'Imperatore fece deportare in Italia un buon numero  di prigionieri Germanici perché lavorassero la terra come coloni; un altro gruppo di Germanici entrò nell'esercito come truppe ausiliarie.  Questi due atti dettero inizio alla penetrazione germanica nel tessuto sociale romano.

Le lunghe e complesse vicende belliche avevano convinto Marco Aurelio che solo con la guerra a oltranza ed eventualmente, in un secondo tempo, con l'annessione diretta e col completamento del sistema di cui la Dacia era da tempo un pilone isolato, poteva risolvere definitivamente il problema danubiano.

Ma la morte improvvisa, 180 a Vienna gli impedì di completare il suo disegno strategico.

 

La rivolta di Ovidio Cassio

Nel maggio del 174, mentre era ancora impegnato nella guerra danubiana, Marco Aurelio ebbe la notizia della rivolta di Avidio Cassio in Oriente.

Alle notizie inviategli Marco per un attimo tremò, ma subito ritrovò il suo coraggio, rifiutò l'aiuto "barbaro" che gli veniva offerto, perché gli estranei non venissero a conoscenza della vergogna della guerra civile dei Romani.  Poi giunsero notizie gradite all'Imperatore;  Cassio era stato ucciso da un Centurione e gli fu inviata la testa del ribelle.  Ma egli rifiutò di ricevere quelli che gliela recavano e diede disposizioni affinché fosse data sepoltura al ribelle.  La morte di Cassio scongiurò la guerra civile.

Questa triste esperienza lo spinse a preoccuparsi delle ripercussioni nell'esercito, provato dall'interminabile guerra sul Danubio. Non vi furono, tuttavia, episodi di slealtà da parte dei Comandanti e delle truppe dell'esercito danubiano, e, all'opposto, tutto il corso della guerra dimostra disciplina ed attaccamento al Principe che, nonostante la diversa inclinazione e la fragilità fisica, era a tutti esempio di virtù militare e di giustizia, e si era talmente conciliati gli animi dei soldati, da poter rifiutare il donativo dopo una vittoria, dicendo che quei denari erano cavati dal sangue dei loro genitori e parenti.

 

L’amministrazione dello Stato

Sul piano della politica interna, Marco Aurelio si rivelò rispettoso delle prerogative del Senato consentendogli di discutere e di decidere su tutti i principali affari dello Stato, come la dichiarazione di guerra ai popoli e i trattati con questi stipulati. 

Avviò anche una politica tendente a valorizzare le altre categorie sociali: ad uomini di tutte le provincie fu reso possibile raggiungere le più alte cariche dell'amministrazione statale.  Né ricchezza, né illustri antenati influenzavano il giudizio di Marco Aurelio, ma solo il merito personale.

Non riuscì a realizzare i suoi ideali stoici di eguaglianza e libertà perché l'esigenza di controllare le finanze locali lo portarono alla costruzione di una classe burocratica che presto volle arrogarsi diritti e privilegi e si costituì quale classe chiusa (come la peggiore burocrazia di oggi). 

L'assetto amministrativo introdotto da Augusto quasi 150 anni prima e che fino ad allora aveva servito egregiamente l'Impero salvandolo anche quando si erano succeduti Imperatori dissoluti come Caligola  e Nerone od in occasione della guerra civile del 69, cominciava ad acquisire piena consapevolezza del proprio potere. Come sempre avviene, quando il potere non è più concepito quale funzione di servizio, ma come strumento per autoaffermazione, la sua natura degenera: funzionari di una grande amministrazione cominciarono a trasformarsi in cieca e meschina burocrazia.  Fu questo un  primo passo verso lo statalismo assoluto di alcuni successori di Marco Aurelio. 

Marco Aurelio, anche se fu continuamente impegnato nelle guerre specie alla frontiera danubiana, si interessò attivamente dell'amministrazione e delle leggi cercando di mitigare le condizioni degli schiavi e favorendone l'emancipazione. 

Tentò anche nuove vie commerciali: si ricorda una ambasceria mandata presso l'Imperatore Cinese nel 166. I Cinesi lo conoscevano col nome di An-Tun.

Istituì l’anagrafe: ogni cittadino romano ebbe l'obbligo di registrare i propri figli entro trenta giorni dalla loro nascita.

Impiegò il denaro non in splendide architetture, ma in opere di ricostruzione assolutamente necessarie, o in migliorie della rete stradale, da cui dipendeva la difesa dell'impero e il progresso del commercio, in fortezze, accampamenti e città. La grandiosa colonna di Marco Aurelio di fronte a Palazzo Chigi (alta 42 m.) fu eretta dopo la sua morte per ricordare proprio le vittorie sul fronte germanico-danubiano. La colonna era sormontata da una statua dell’Imperatore, ma ora vi è posta quella di S. Paolo (è lo stesso destino di Traiano sulla cui Colonna è stata posizionata una statua di S. Pietro).

 

La fine

Il 17 marzo del 180, a Vienna, prima di poter dare inizio alle operazioni definitive della guerra danubiana, l'Imperatore spirava.  Sul letto di morte, scongiurò il figlio Commodo "di non trascurare gli ultimi strascichi della guerra".  Se fosse vissuto un anno di più, avrebbe portato a compimento la politica di Cesare, di Augusto, dei Flavi e di Traiano.

La morte dell'Imperatore, quasi al momento della realizzazione del suo programma, venne seguita dall'abbandono, da parte di Commodo, degli obiettivi prefissati.  Ancora una volta si realizza un parallelismo con Traiano: questi, nel 117 aveva lasciato al nipote Adriano il compito di perfezionare la sua opera, e Adriano si era indirizzato ad altra politica; nel 180 si ripeté il destino dei due primi Imperatori spagnoli, quando Commodo si trasse indietro davanti al completamento delle magnifiche imprese paterne.

La sua figura è quella di un Imperatore nobile e conscio delle sue responsabilità.  Fu costretto dalla situazione ad una quasi ininterrotta attività militare (che avrebbe voluto delegare a Lucio Vero) e da Imperatore-filosofo dovette trasformarsi in filosofo con la corazza.

La sua statua equestre che troneggia in Piazza del Campidoglio ha le sembianze del guerriero, ma lo sguardo è quello del filosofo che vede la fine di una fase storica. Emerge da quello sguardo malinconico tutta la contraddizione fra un dettato morale teso alla libertà ed alla eguaglianza ed una necessità di real politik che tende a conservare e consolidare l’imperialismo in atto. Ma egli si rende conto che le vittorie conseguite non potranno fermare il corso della storia; avverte chiaramente che la fame dei barbari avrà la meglio sulla forza dei romani; sente che è già in atto la crisi irreversibile dell'Impero romano.

Quando gli si richiese per l'ultima volta la parola d'ordine, la risposta di Marco Aurelio fu: "andate verso il sole nascente, il mio sole tramonta". E con lui tramontava anche il mondo antico. Anche per questo, forse, fu l’ultimo dei grandi Imperatori romani.

Con Marco Aurelio termina anche questo breve excursus su una delle fasi più belle della storia romana attraverso i suoi più grandi Imperatori. Oltre 220 anni di storia stupenda anche grazie ai grandi Imperatori che hanno marcato lo sviluppo della storia imperiale dell’Urbe. Ne abbiamo seguito l’ascesa con l’avvio di Cesare, il perfezionamento di Augusto, il consolidamento di Tiberio e Vespasiano fino alla vetta raggiunta con Traiano e mantenuta da Marco Aurelio. Da allora in poi la crisi assumerà  proporzioni vastissime nel secolo III, sarà temporaneamente arrestata da Diocleziano e Costantino, fino alla rovinosa caduta finale del V secolo.