EL ALAMEIN Gli inglesi scoprono gli eroi
italiani
(di Maurizio BREDA)
(Articolo
tratto dal Corriere della Sera del 12 sett. ’02)
A sessant’anni dalla battaglia nel
deserto egiziano, che si svolse fra il 23 ottobre e il 4 novembre, due storici
britannici riconoscono il valore dei nostri soldati.
Una disfatta
causata soprattutto dai mezzi inadeguati
«Tre carri armati britannici avanzarono: erano muniti di
altoparlanti che trasmettevano messaggi d'ammirazione per il coraggio dei
nemici, completamente accerchiati, e offrivano loro onorevoli condizioni per
cessare le ostilità, minacciando l'annientamento totale se si fossero
rifiutati. I paracadutisti gridarono "Folgore" e aprirono il fuoco. I
tank si ritirarono. Poi prevalsero la sete e la fame». Non è tratto dal diario
di uno dei nostri reduci, questo brano. E' un passo del saggio di John Bierman
e Colin Smith, autori di The battle of Alamein , in uscita a Londra per
la Viking, che analizza la più cocente sconfitta dell'esercito italo-tedesco
nella Seconda Guerra Mondiale. Un libro che riserva parecchie sorprese.
A partire dal racconto di quella resa non accettata, che fa venire in mente «la
fucilazione del 3 maggio 1808» di Goya, con i vinti dagli occhi febbricitanti e
i volti deformati dal terrore, nel momento in cui si preparano a morire davanti
al plotone d'esecuzione: solo che stavolta i vincitori non sparano e non
uccidono, perché non ce n'è più bisogno, e lasciano che a sparare, con le
ultime cartucce e una platonica fierezza, siano i nemici: i 304 superstiti dei
5.000 uomini con il basco da parà. I soldati italiani, che possiamo appunto
immaginare dentro l'atmosfera evocata da Goya: illuminati dalla stessa
disperata dignità umana, che in quel caso è dignità militare.
Si sa che nel Regno Unito non c'è mai stata tenerezza verso le truppe
mussoliniane: negate quasi sempre le cosiddette virtù guerriere, si concedeva
qualcosa al mito degli «macaroni brava gente», come si è visto nel romanzo Il
mandolino del capitano Corelli di Louis De Bernières. Eppure, alla fine
della battaglia di El Alamein, proprio gli ufficiali di Sua Maestà vollero
rendere l'onore delle armi al lacero stendardo tricolore. Sul campo. E adesso,
mentre s'avvicina il sessantesimo anniversario della battaglia che (con quella
di Stalingrado) invertì le sorti del conflitto, sono gli storici inglesi a
giudicare con un inedito rispetto i nostri combattenti. Così, il lavoro di
Bierman e Smith, nel ricostruire lo scontro avvenuto nel deserto egiziano tra
il 23 ottobre e il 4 novembre 1942, riabilita gli italiani come nessuno aveva
fatto sinora, di là della Manica.
Rovesciando la beffarda sentenza tedesca di allora, secondo la quale «i carri
italiani erano dotati di 10 marce, una avanti e nove indietro», lo studio
analizza le tante facce della nostra disfatta. A partire da certe condizioni
d'inferiorità, evidenti nel confronto con il nemico britannico e anche con
l'alleato germanico, che aveva quantomeno il vantaggio di un generale
leggendario, Rommel, «del quale erano infatuati persino i britannici». Esempi:
i nostri tank «erano adatti per controllare i civili o impaurire i cavalleggeri
africani, ma non ci si poteva aspettare altro. Scarsamente corazzati, avevano
insufficiente portata di fuoco e consentivano dall'interno una visibilità molto
limitata. Pochi disponevano di radio, per cui un comandante era costretto a
lanciare gli ordini segnalando con i gagliardetti dalla torretta o lampeggiando
in Morse. Gran parte dell'artiglieria risaliva a prima del 1918».
«Ciononostante», ecco la certificazione d'eroismo, «gli artiglieri dimostravano
il loro coraggio e continuavano a ricaricare le batterie fino a che non erano
letteralmente schiacciati dai carri nemici».
Ma com'era stato possibile mandare così allo sbaraglio i nostri soldati? Per
due motivi. Per l'azzardo di Mussolini, di cui si ricorda la cinica confidenza
a Badoglio nel 1940, dopo le spettacolari vittorie del Blitzkrieg hitleriano:
«Mi bastano poche migliaia di morti per poter prendere posto alla conferenza di
pace come un uomo che ha combattuto». E poi per la debolezza dell'Italia che,
«a parte le sue ammirate manifestazioni di stile, era uno degli Stati più
poveri d'Europa». Sì, il Paese «produceva buoni autoveicoli, aerei e piccole
armi, ma non in misura sufficiente». Nel 1939 «la patria della Fiat e dell'Alfa
Romeo aveva soltanto 372 mila auto sulle strade, contro due milioni e mezzo in
Gran Bretagna e quasi altrettante in Francia». E «i biplani CR42, insufficienti
per numero, erano di 170 chilometri l'ora più lenti dei loro avversari». E il
raffronto dispari vale pure per l'alleato tedesco.
Come scrisse il colonnello Paolo Caccia Dominioni, citato nel libro, il nostro
corpo di spedizione fu presto «esausto di promesse mai mantenute, degradato con
armi ed equipaggiamenti farsescamente inadeguati». Tutto ciò, comunque, non lo
fece arretrare. Neanche sotto il diluvio di bombe dei cannoni inglesi (1000
contro 500). Neanche sotto l'assalto dei carri armati (1500 contro 510).
Neanche dopo l'abbandono delle truppe di Rommel in fuga (già, perché a scappare
furono loro). E quando finirono le munizioni, gli italiani, «affamati e
senz'acqua», riempirono di esplosivo le scatole di pomodori e usarono quelle.
Furono annichiliti da un nemico che, grazie alla decifrazione del codice
«Enigma», aveva un'arma segreta in più: conoscere in anticipo le scelte
strategiche dell'Asse, mentre i tedeschi furono sempre persuasi che a informare
Londra fossero i «traditori» italiani.
Insomma è giusto, ma tragicamente riduttivo, quanto è inciso sul
sacrario di El Alamein: «Mancò la fortuna, non il valore». No, mancarono troppe
altre cose, oltre che la buona sorte, ai nostri soldati. E ora lo si riconosce.