LA REGOLA DELL’AUTODIFESA
di PIERO
OSTELLINO
(Corriere
della Sera del 4 aprile 2003)
Pietro Ingrao si augura «che il popolo
iracheno resista all’aggressore (americano) fino all’ultimo minuto». Ma
confonde le milizie di Saddam, che si riparano dietro i bambini e le
donne, che sparano alla schiena di chi scappa da Bassora, che a Bagdad
costringono gli abitanti a uscire di casa uno alla volta, per tenerne in
ostaggio i familiari, con il popolo . Che, invece, ne è la vittima. Un
abbaglio grave per un marxista. Ingrao aggiunge che i fondamenti politici della
«guerra preventiva» risalgono a prima dell’11 settembre. Ma, allora, perché,
invece che da anacronistico «partigiano della pace» di staliniana memoria, non
ne discute da politico vero? Dopo l’11 settembre, Bush aveva detto: «Alcuni
parlano di un’era del terrore (...) Ma questo Paese definirà i nostri tempi,
non si lascerà definire da questi». Bush e i suoi hanno deciso, cioè, che non
saranno i terroristi a dire agli americani come dovranno vivere, e morire, ma
saranno gli americani a stabilirlo. Secondo gli iper-realisti di Washington,
poiché il mondo è costituito da Stati sovrani e da nuovi soggetti non statuali
nei confronti dei quali è lecita una certa diffidenza, è sbagliato parlare di
«comunità» internazionale. Al contrario, le relazioni internazionali si
sviluppano nel regno dell’anarchia nel quale ciò che conta sono i rapporti di
forza.
In tale contesto, l’autodifesa è la regola di ogni Stato, il patto che esso
stipula con i propri cittadini e che ne giustifica l’obbligazione politica
(dopo l’11 settembre, il vincolo di appartenenza degli americani al proprio
Paese si fonda più che mai sulla sua capacità di difenderli). D’altra parte, la
priorità data all’autodifesa non consente di fare sempre affidamento sulla
diplomazia, al cui posto, quando essa fallisca, non può che subentrare la
forza. La «guerra preventiva» è, perciò, un mezzo, non un fine; cioè è
funzionale all’autodifesa.
Anche le istituzioni internazionali non
sono fini a se stesse, ma hanno un senso se sono utili; non ce l’hanno se
costituiscono un impaccio per chi è costretto a fare da sé per la propria
sicurezza. Così, quando c’è di mezzo il terrorismo, gli Usa, se necessario,
faranno da soli per combatterlo e tutelare la propria sicurezza. Pertanto, le
alleanze sono a geometria variabile, fra quelli «che di volta in volta ci
stanno». Selettiva - dunque solo se e dove essa sia utile alla lotta al
terrorismo e al perseguimento degli interessi nazionali - quindi non
ideologica, è anche l’«esportazione della democrazia». Infine, la presenza di
un Paese egemone (gli Usa) che produca «beni pubblici», come la sicurezza,
rende più fruttuose le relazioni internazionali e, quindi, più ricche le
prospettive di pace.
Ciò che ha diviso Usa e Gran Bretagna da
Francia e Russia sulle armi di distruzione di massa dell’Iraq è stata la
sensazione angloamericana che chi proponeva il protrarsi delle ispezioni Onu
ritenesse la «gestione» della crisi una scelta alternativa alla «soluzione» del
problema, il disarmo iracheno. Così, gli americani hanno fatto la guerra per
risolverlo. Nel timore di un nuovo attacco e nella convinzione che reagire solo
dopo essere stati colpiti sarebbe una forma di suicidio.
Che ne dicono Ingrao e chi la pensa
come lui?
postellino@corriere.it