UN’IDEA DI PATRIA (SENZA RETORICA) (di CLAUDIO MAGRIS) (dal Corriere
della Sera del 2/6/2002) Durante le guerre napoleoniche, un arciduca e generale austriaco aveva esortato i soldati, in un proclama, a combattere per la Patria. La corte imperiale censurò quel proclama, considerandolo sovversivo. La Patria era un pericoloso concetto rivoluzionario, affermato dalla Francia; i soldati austriaci dovevano combattere per la Casa d’Asburgo, per il loro signore. Invero, Maria Teresa e Giuseppe II, i grandissimi sovrani innovatori, avevano sostituito al vecchio ideale famigliare-dinastico quello dello Stato di cui il monarca non è il padrone bensì il primo servitore, ma la grande stagione dell’Illuminismo riformatore era passata, e l’imperatore Francesco, che combatteva contro Napoleone, era un reazionario e, in quanto tale, antipatriottico. La patria presuppone cittadini, non sudditi o servi; il tricolore italiano deriva, almeno in parte, da quello della Rivoluzione francese, delle tre grandi parole di libertà, uguaglianza e fraternità. La carica libertaria dell’idea di Patria e di nazione sbandierata dalla Rivoluzione francese fu assai presto pervertita, a cominciare dalla stessa Francia rivoluzionaria che, proclamandone l’universalità, pretese di esserne l’incarnazione. L’amor di Patria è presto degenerato in aggressiva
negazione delle Patrie altrui; il principio di nazionalità si è spesso scisso
dai movimenti liberali cui era inizialmente unito, e si è degradato in
nazionalismo, che ha infiammato le masse, scatenato violenze - che ai nostri
giorni rinascono con criminosa imbecillità - e favorito la mobilitazione
totalitaria dei popoli e i regimi dittatoriali. Strumentalizzato o vilipeso, involontariamente
ridicolizzato dalla retorica patriottarda o irriso con petulanza ideologica,
il giusto senso di Patria è minacciato dalla sua abietta caricatura
nazionalista e dalla puberale regressione particolaristica a presunte radici
etniche, dal micronazionalismo di campanile incapace di vedere il paese
vicino e il mondo. L’idea corretta di nazione ha un respiro universale, e
l’idea di una peculiarità in cui si realizza, come in molte altre, l’umanità.
Herder, il grande scrittore illuminista e preromantico tedesco, vedeva
l’umanità come un grande albero, di cui le nazioni erano i rami, le foglie, i
fiori e i frutti, ognuno con la sua necessaria e feconda diversità, ma anche
necessario agli altri, come ogni voce in un coro ben intonato. La
particolarità - ha scritto Predrag Matvejevic, opponendosi al delirio del
nazionalismo etnico - non è ancora un valore; è la premessa del valore, che
si realizza nel superamento di ogni immediatezza e di ogni idolatrico
feticismo dell’identità. Il nazionalismo e il municipalismo sono egualmente
antipatriottici perché sono entrambi particolaristici, ringhiosamente chiusi
e ottusi, incapaci di pensare e sentire all’ingrande, in termini universali.
L’autentico patriottismo sa trascendersi: Milosz, il grande poeta polacco,
ricorda il dovere di difendere la propria nazione quando essa è minacciata,
ma di impedire che questo valore venga assolutizzato e diventi dominante,
facendo scordare quelli più alti, universali-umani. Anche la famiglia è un valore se, nella sua piccola
cerchia, apre l’individuo al senso grande del comune destino degli uomini; se
invece si chiude in una livida e linda grettezza egoistica, non è più la
culla ma la repressione dell’universale-umano, un pannolino igienico che non
ci si toglie mai e che impedisce di crescere e di amare. |
La stessa cosa vale per la nazione; il nazionalismo è
una coatta camicia di forza, nevrotica, aggressiva e autolesiva. Il fascismo
è stato un simile grembiulino soffocante e livoroso. Non è un caso che il
patriottismo repubblicano, mazziniano, sia stato in prima linea nella lotta
antifascista; è simbolico che ad affrontare il fascismo, a Trieste, nelle
ultime elezioni del 1925, fosse il repubblicano Cipriano Fachinetti,
volontario e mutilato della Grande Guerra. La nazionalità è cultura, non biologia. Gli ultimi
grandi difensori dell’Impero romano sono dei barbari come Ezio o Stilicone,
divenuti più romani dei flaccidi imperatori. Quando ci si interroga sulle
proprie origini, l’identità si sgretola in una pluralità di elementi
eterogenei. E’ un processo che avviene ovunque, ma di cui ci si accorge con
particolare intensità nei territori di frontiera, in cui tanti patrioti
scoprono di appartenere anche ad altre nazionalità, magari pure a quella con
cui la loro in quel momento si trova in conflitto. Slataper muore in guerra
per l’italianità di Trieste, ma il suo nome dice le sue origini slave;
irredentisti céchi portano spesso cognomi tedeschi e viceversa, il dalmata
Ante Trumbic si sentiva un fervido croato ma diceva di pensare in italiano.
Se non si ha paura della propria complessità e non si cerca di soffocare
istericamente questa paura - come fa il nazionalismo, inventando una mitica
compattezza - si scopre di essere anche dall’altra parte della frontiera. Marisa Madieri racconta la storia dell’esodo da Fiume
alla fine della Seconda guerra mondiale, anche delle vessazioni subite in
quel momento da parte degli slavi che si vendicavano con violenza
indiscriminata delle violenze patite dai fascisti, e scopre le radici pure
slave e ungheresi della sua famiglia, scopre di far parte anche di quel mondo
che la minacciava. I personaggi di Tomizza vengono a sentirsi italiani tra
gli slavi e slavi tra gli italiani. Questo riconoscimento di appartenenza-inappartenenza,
studiato da Arduino Agnelli a proposito della narrativa di Vegliani, non ha a
che vedere con la parentela etnica, ma con l’affinità a una cultura e a uno
stile di vita: Marin, nel ’15, a Vienna si dichiara un italiano che vorrebbe
abbattere l’impero asburgico e, quando si arruola nell’esercito italiano, un
austriaco insofferente della rozzezza delle autorità italiane. La scoperta di
una propria identità plurale non incrina, ma arricchisce il senso di
appartenenza alla cultura e alla nazione in cui ci si riconosce, gli dà una
marcia in più; Slataper non è meno italiano di chi è nato in Toscana, anche
se la sua italianità è più recente. La nazione, la Patria, l’identità, non sono un idolo
immobile, nascono, vivono e si trasformano nel tempo; i popoli non sono
eterni, come proclamava Stalin, ma passano come le foreste e gli dei. Le
Patrie muoiono e rinascono; nel ’43 è morta un’Italia e ne è nata un’altra,
erede di tutta la sua storia. Oggi gli Stati nazionali, anche l’Italia, sono
destinati, pur tra tante difficoltà e resistenze, a integrarsi in una Patria
più grande, l’Europa - un’Europa federale, decentrata, tutelatrice delle
singole peculiarità, ma unita. E’ un processo travagliato ma liberatorio, che
non cancella ma potenzia il patriottismo autentico; il federalismo, opposto a
ogni rancoroso secessionismo, nasce per unire le compagini esistenti, non per
disgregarle. In una splendida poesia in dialetto veneto, Noventa sferza gli
aridi snob che si pretendono internazionali, per i quali l’Italia «xé massa
piccola». In un bel libro appena uscito, Nancy Huston critica tutta una
cultura - riassunta esemplarmente nel nome di Sartre - che ha negato ogni
legame non meramente intellettuale dell’uomo col mondo, dalla nazionalità
alla procreazione. Quella cultura astrattamente ideologica si trova oggi
impotente ad affrontare i furibondi - e artificiosi - visceralismi etnici, i
micronazionalismi locali che vorrebbero distruggere l’unità nazionale e
vilipendono il tricolore anche se governano insieme a che lo sbandiera. Scrivendo
in veneto, il grande Novanta mostra di avere e sue radici in quel linguaggio
e in quella terra, ma dice un amore per l’Italia opposto all’acne puberale
delle piccole patrie, che vorrebbe chiudersi nella propria angusta
immediatezza e alzare il ponte levatoio anche in faccia a chi abita
dall’altra parte della strada. Questo astio nasce dalla paura di venire
cancellati dalle grandi trasformazioni del mondo, e questa paura non va
ignorata, nè derisa ma compresa per sfatarla. Qualcosa di simile, ha detto
una volta Andreatta, è accaduto nella Grecia del V secolo quando la nascita
della Polis, della Città-Stato, e l’indebolimento delle unità sociali più
piccole, famiglia o clan, ha provocato una crisi cui la civiltà ha risposto
con la tragedia greca, con le storie degli Atridi e di Antigone. Ma Oreste,
alla fine, viene liberato dalle Furie del sangue. Dante diceva che a furia di bere l’acqua dell’Arno
aveva appreso ad amare fortemente Firenze, ma aggiungeva che la nostra Patria
è il mondo, come il mare per i pesci. Quelle due acque, il fiume casalingo e
l‘Oceano universale si integrano a vicenda; la Patria è questo legame fra la
particolarità del luogo natio e l’orizzonte del mondo. Noventa scrive le sue grandi poesie in dialetto non
certo per rifiutare l’italiano, ma perché quel linguaggio, in quel momento, è
il suo spontaneo modo di essere. Le autorità locali che usano
artificiosamente il dialetto in modo reattivo, per far dispetto alla fascia
tricolore, oltraggiano non il tricolore, ma il dialetto degradato a pacchiano
e bizzoso folclore. La Patria non si identifica necessariamente con una
nazione. Sono esistiti ed esistono Stati plurinazionali, che garantiscono le
diversità in cui gli individui e le diverse comunità sì riconoscono e trovano
una dimora abituale nella vita, una realtà in cui sentirsi a casa nel mondo. La lingua tedesca contrappone all’aggressivo Vaterland
la Heimat, la Patria intesa quale casa natale — quella casa natale,
diceva L’immaginoso marxista Ernst Bloch, in cui nessuno è ancora veramente
stato, per che la vera Patria, la vera casa natale della vita è un mondo
liberato dall’ingiustizia e dall’oppressione, che non esiste ancora. La Patria non è un’azienda. Come una famiglia deve
essere amministrata con saggia oculatezza, per il bene di tutti, ma il suo
senso e il suo fine non sono quelli di un’azienda. Dire «azienda Italia» è
come definire l’amore un esercizio di ginnastica; è una gaffe che, per
fortuna di chi la commette, viene lasciata correre perchè, diceva ancora
Noventa «la povara Italia sè tanto distrata». Slataper, i fratelli Cervi o i
caduti di malga Porzus non sono morti per un’azienda. Sono morti per l’Italia
– forse, verrebbe da dire guardandosi intorno, per un’Italia civile che,
diceva Marin “è solo una nostra esigenza”. Claudio Magris |