DOPO
MAASTRICHT, IL NUOVO ALLARGAMENTO, L’EURO
E
LE PROBLEMATICHE DELLA DIFESA(1992 - 1999)
Il Trattato di Maastricht aveva disegnato un Parlamento europeo ancora subalterno rispetto al Consiglio che diventava, invece, il vero motore della Comunità.
A complicare le prospettive della completa attuazione di quanto previsto dal Trattato, sopravveniva la tempesta monetaria del ’92, causata dall’estrema debolezza del dollaro e dai forti tassi d’interesse offerti dalla Germania per finanziare gli altissimi costi della riunificazione tedesca. Ne conseguì la svalutazione della lira (-7%) e della sterlina. Entrambe furono costrette ad uscire dallo SME ed a fluttuare con l’unica difesa delle proprie riserve. Globalmente la lira italiana si svalutò del 30-35%. Fu necessario un forte risanamento finanziario. Il deficit di bilancio che nel ’97 era pari al 10-11%, nel ’97 scese al 3%. L’inflazione scese al 2,6% ed in tal modo la lira potè rientrare nello SME.
Nel periodo dal ’92 al ’95 uno dei temi principali della Comunità era quello dell’allargamento. Propedeutico a quest’allargamento fu la creazione, nel ’92, lo Spazio Economico Europeo (SEC), accordo fra i dodici Paesi dell’Unione ed i sette dell’EFTA (Austria, Finlandia, Islanda, Liechtenstein, Norvegia, Svezia, Svizzera – quest’ultimo Paese ne uscirà a seguito di un referendum negativo), in tal modo si estendeva a questi sette Stati la libera circolazione delle persone, delle merci, dei servizi e dei capitali.
Un altro passo avanti nella liberalizzazione del commercio fu la definizione degli accordi dell’Uruguay Round, per la riduzione delle tariffe doganali e d’altri ostacoli alla libertà degli scambi a livello intercontinentale. L’accordo si concluse nel dicembre ’93 con la riduzione dei dazi di quasi il 35%.
Nel ’94 si conclusero anche i negoziati per l’ingresso nella Comunità di Svezia, Norvegia, Austria e Finlandia. Un referendum popolare svoltosi in Norvegia, tuttavia, espresse un veto all’ingresso del Paese nella Comunità. I dodici divennero pertanto quindici.
Nuovi Paesi chiedevano l’ingresso nell’Unione europea e, fra questi, molti ex Stati satelliti dell’URSS. Questa prospettiva aprì un lungo dibattito sull’opportunità o meno di proseguire in quest’allargamento che avrebbe coinvolto Stati non abituati all’economia di mercato, al metodo democratico e con ordinamenti da rivedere in toto. Si trattava anche di Paesi poveri che avrebbero sicuramente gravato sul bilancio della Comunità sottraendo risorse in particolare ai Paesi del sud come la Spagna, il Portogallo e la Grecia. L’ingresso di questi Paesi non poteva quindi avvenire con immediatezza poiché era necessario un periodo d’assistenza tecnica. A tal fine fu varato il programma PHARE per realizzare nell’Europa orientale un’area di libero scambio in preparazione dell’ingresso nell’Unione.
Questa prospettiva d’allargamento con l’inserimento di Paesi poveri innescò un dibattuto culturale sul futuro assetto dell’Unione. Al riguardo furono formulate varie ipotesi:
· Europa a più velocità, ove era fissato un obiettivo comune da raggiungere con tempi e ritmi diversi, secondo la preparazione di ciascun Paese;
·
Europa à la carte, che lasciava libero ogni
Stato di aderire o meno all’uno o all’altro dei programmi d’integrazione
(estensione della clausola dell’opting out”);
·
Europa a geometria variabile, in cui vi era una
piattaforme comune a tutti gli Stati ed altri programmi collaterali ove
ciascuno era libero di partecipare (si realizzava in tal modo un “nocciolo
duro” dell’Unione, costituito, ovviamente, dai Paesi più forti);
·
Europa a cerchi concentrici, che era una via di
mezzo fra quella “à la carte” e quella a geometria variabile.
A fattor comune, s’intravedeva la prospettiva di Stati di serie A e Stati di serie B.
Mentre sul piano economico, le prospettive segnate da Maastricht procedevano sostanzialmente secondo i tempi fissati, non decollava, invece, il pilastro della politica estera. Come abbiamo visto, con l’Atto Unico dell’87 era stato creato un apposito Segretariato, mentre con Maastricht si era andati oltre, definendo gli obiettivi in questo settore ed istituzionalizzando un apposito “pilastro”.
Sul piano militare vennero fatti dei passi avanti con la costituzione di:
· Eurocorp, unità franco-tedesca con 50.000 uomini (due divisioni corazzate, una francese e l’altra tedesca ed una Brigata mista);
· Euroforce, unità quadrinazionale fra Francia, Italia, Spagna e Portogallo (il Comando è a Firenze);
· Euromarforce, che comprende unità marittime degli stessi Paesi di Euroforce.
Accanto alle forze, furono varati accordi per dar vita ad un’industria militare europea che avesse sufficiente “massa critica” per costituire un “Polo europeo” degli armamenti in grado di competere con i colossi americani. Vi furono accordi industriali fra Aerospaziale e Dasa e fra Matra e GEC. Furono anche varati programmi per lo sviluppo e produzione di sistemi d’arma europei come il caccia da combattimento, il carro armato pesante franco-tedesco e l’elicottero NH-90.
Tuttavia il sogno di una politica estera comunitaria si infranse con la crisi jugoslava, ove emersero situazioni differenti, perché diversi erano gli interessi nazionali. Infatti:
· la Germania anticipò, unilateralmente, il riconoscimento di Slovenia e Croazia incoraggiando, in tal modo, lo scontro fra Croazia e Serbia;
· la Francia confermava la sua tradizionale alleanza con la Serbia.
In questa situazione non si raggiunse un accordo per l’impiego dell’UEO come forza di interposizione e così una crisi alle porte dell’Europa fu risolta solo grazie all’intervento degli Stati Uniti che portarono agli accordi di Dayton ed all’impiego della NATO.
Solo in occasione della crisi albanese (e solo grazie alla lodevolissima iniziativa italiana) l’Europa riuscì a trovare un certo amalgama perché in quel conflitto intervennero, sotto la guida italiana, gli altri Paesi dell’Euroforce (Francia, Spagna e Portogallo) ed altri Paesi minori (ma non intervennero Gran Bretagna e Germania).
Insomma, il bilancio dei primi cinque anni della PESC era del tutto desolante, con due canali di diplomazie parallele e spesso divergenti (quella comunitaria e quelle nazionali).
Sul campo economico, come detto, le cose procedevano regolarmente. Nel dicembre ’95, a Madrid fu scelto il nome EURO per la nuova moneta e fu deciso che essa sarebbe stata adottata dal 1° gennaio ’99 e distribuita dal 1° gennaio 2002. Erano previsti 6 mesi di “circolazione doppia” (della vecchia moneta nazionale e dell’Euro). Il 1° giugno ’99 partiva l’Euro e la BCE iniziava la sua attività sotto la direzione di Duisenberg.
Tra la fine del ’98 ed i primi mesi del ’99, la Comunità fu travolta dalla crisi del Kosovo, ove, ancora una volta, emerse l’incapacità di assumersi impegni a livello comunitario. Gli eventi sono noti: il conflitto fra la Serbia e la regione autonoma del Kosovo minacciava di estendersi alle aree circostanti ed in particolare alla Macedonia ed all’Albania. Ancora una volta fu necessario l’intervento americano, ma la via diplomatica si rivelò inutile. Il 24 marzo iniziarono i bombardamenti aerei del Kosovo: era stata varcata la soglia del conflitto armato (secondo il commento di un noto europeista “c’è da sospettare che senza la NATO o piuttosto senza il Presidente Clinton e gli Stati Uniti, l’Europa non si sarebbe mai spinta oltre quella soglia”).
Di fronte al mancato cedimento serbo ed alla riluttanza occidentale a lanciare un attacco terrestre, si arrivò ad una situazione di stallo. A questo punto fu risolutiva una mediazione del governo russo: la Serbia ritirava le proprie truppe dal Kosovo, ove entravano unità terrestri della NATO che costituivano cinque settori operativi (USA, GB, Francia, Germania ed Italia). Vi parteciparono anche i russi con alcune unità.
Le problematiche della Difesa
europea
Un passo avanti nella difesa comune fu compiuto durante il Consiglio europeo di Helsinki nel dicembre del ’99. Qui furono richiamati gli accordi che erano stati raggiunti, in ambito UEO, nel ’92 a Petersberg. In quella circostanza, i paesi membri dell’UEO s’impegnarono a mettere a disposizione le rispettive forze armate, agenti sotto l'autorità dell’UE, per lo svolgimento di una tipologia di missioni al di fuori della difesa comune prevista dalla NATO. Tali compiti, che pertanto esulano dal concetto di difesa collettiva, sono state definite "missioni di Petersberg" e consistono in compiti di natura umanitaria, di soccorso e di mantenimento della pace, gestione crisi da parte di forze combattenti, ristabilimento della pace.
Al vertice di Helsinki, il Consiglio europeo ha stabilito il
seguente "obiettivo primario" per i 15 paesi membri dell'Unione
europea:
"collaborando spontaneamente e in condizioni di
reciprocità, entro l'anno 2003 gli Stati Membri saranno in grado di dislocare
entro 60 giorni, e quindi sostenere, forze capaci di svolgere tutti i compiti
di Petersberg, compresi quelli più impegnativi, nel corso d’operazioni affidate
fino a livello di corpi d'armata (un massimo di 15 brigate ovvero 50.000-60.000
uomini). Queste forze dovrebbero essere militarmente autosufficienti dotate
delle necessarie strutture di comando, controllo ed intelligence, la logistica,
altri servizi di supporto ad azioni belliche ed inoltre - ove del caso -
componenti aeree e navali. Esse dovranno essere in grado di sostenere un tale
dislocamento di forze per una durata minima di un anno. Ciò richiederà un pool
aggiuntivo di unità dislocabili (e di strutture di supporto) ad addestramento
ridotto, che possano sostituire a tempo debito le forze inizialmente
dislocate".
Per concretare tutto ciò veniva anche dato
il via alla costituzione di una catena di comando costituita da:
·
Comitato Politico e di Sicurezza (PSC), con funzionari a
livello Ambasciatori;
·
Comitato Militare (Military Committee = MC), composto dai
Capi di Stato Maggiore della Difesa che avrebbero eletto al loro interno un Chairman,
con funzioni di Capo di Stato Maggiore europeo;
·
Uno staff di esperti nazionali (Military Staff = MS)
composto di 115 – 120 persone.
La struttura ha sede a Bruxelles ed ha
compiti di preallarme, valutazione, pianificazione operativa e selezione delle
forze da assegnare alle varie missioni.
La forza di reazione rapida dell’Unione
europea avrebbe usufruito delle strutture della NATO, ma avrebbe potuto anche
agire autonomamente (“la nuova forza deve essere separabile, ma non separata
dalla NATO”). La NATO dette il suo assenso con la cosiddetta formula delle
tre “D”:
·
No decupling (nessuna spaccatura);
·
No duplication;
·
No discrimination.
Ulteriori passi avanti per la sicurezza
furono compiuti nel Consiglio di Feira (giugno 2000) in cui
si sono avuti ulteriori sviluppi,
tra cui la creazione di una Forza Europea di Sicurezza e Intelligence. Si
tratta di una forza costituita da 5.000 agenti di polizia opportunamente
armati, in grado di condurre azioni a carattere "preventivo e
repressivo" a sostegno delle missioni di pace, da svolgersi sul piano globale.
La forza sarà soggetta alla supervisione del Comitato politico e per la
sicurezza, mentre l'effettivo controllo operativo sarà affidato all'Alto
Rappresentante per la PESC/PESD.
Un grande sforzo in direzione unitaria fu operato al fine di pervenire ad un’Agenzia europea degli armamenti. A livello industriale si verificarono alcuni accorpamenti per reggere il confronto con i colossi americani. In particolare:
L’Italiana Alenia (della Finmeccanica) è entrata con partecipazioni in tutti i nuovi consorzi.